L’incredibile storia del piccolo Bartolo, 1868 – Giandamiano Lombardo

Dopo avere lasciato nel porto di Genova con il loro saccalleva il carico di barili di acciughe sottosale, pescate e lavorate a Lampedusa, i pescatori facevano ritorno nella loro piccola e lontana isola.
“Vice’ ancora n'avemu caminu di fari!” disse Giovanni.
Per questa ragione, si fermarono nell’isola di Filicudi, nell’arcipelago delle Eolie, dove avrebbero fatto un po’ di cambusa e alcuni piccoli lavori sul veliero ed alle vele.
La bonaccia, però, impedì loro di poter tornare presto a casa: dovettero fermarsi per molto tempo, in attesa che il vento potesse riportarli dai loro cari.
“Zu Vice’, aviti bisogno?” chiedeva tutte le mattine un ragazzino che avrà avuto 9 anni. Si capiva, da come era vestito e da come era magro, che il piccolo Bartolo aveva bisogno di un pezzo di pane e forse anche di un po’ d’affetto.
Lo fecero salire a bordo e visse praticamente con loro sul saccalleva, mentre erano stanziati a Filicudi.
“Vice’, u ventu sta chianannu!” disse una mattina Giovanni. Tutti furono sopraffatti dalla gioia, finalmente potevano fare ritorno a casa, dalle loro famiglie. Tranne uno. Bartolo, piccolo e fragile, sapeva che, una volta partiti i “mpidusani”, sarebbe rimasto da solo, senza i suoi nuovi amici...
Chiese insistentemente al capitano che lo portasse con loro, disse che li avrebbe aiutati nel viaggio, giurava che si sarebbe comportato bene.
Nonostante tutti si fossero affezionati a quel ragazzino vispo ed intelligente, non sarebbe stato possibile portarlo con loro. Bartolo pianse molto e quando arrivò il giorno della partenza, non si presentò neanche al porto per l’ultimo abbraccio.
Le vele spiegate al vento facevano rotta per Lampedusa. La sagoma dell’isola cominciava ad essere più nitida, quando Salvatore, uno dei marinai, sentì un rumore in cucina che lo insospettì. Aperto il boccaporto, spalancò gli occhi: Bartolo si era nascosto lì.
“O’scia’!” esclamò. Non credeva ai suoi occhi. Erano passati 4 giorni da quando avevano salpato da Filicudi e lui era rimasto lì per tutto quel tempo.
“E tu chi ci fa cca’?” disse il capitano.
“Ora chi facemu?” disse Giovanni.
Tornare indietro ormai era impossibile: Lampedusa era così vicina da poter vedere il mare cambiare colore, trasformandosi dal blu profondo al turchese cristallino delle sue acque. I colori brillanti della splendida spiaggia dei Conigli alla loro sinistra indicava ormai l’avvicinarsi del porto.
Intanto, lo fecero mangiare e, discutendo sul da farsi, si ritrovarono ancorati al Porto Vecchio con un componente dell’equipaggio in più.
Il caso volle che una pronipote di Bartolo si sposò con un discendente di quella famiglia di pescatori che lo portarono, molto tempo prima, a Lampedusa. Il legame formatosi anni addietro tra il ragazzino di Filicudi, una volta piccolo e solo, e i pescatori lampedusani, suoi amici affezionati, venne reso così indissolubile nel tempo.





Pino “O’ Sparaghiuni”, 1932 – Giandamiano Lombardo

“O Pi’, ci iamu a Viccia?”, chiese Tommasino.
I ragazzi che abitavano “sutta o casteddu” erano soliti andare alla Guitgia a fare il bagno. Il più delle volte, la raggiungevano a piedi: scendevano dalla via Roma lungo il sentiero che porta a cala Salina, dove una striscia di sabbia bianca si estendeva fino alle saline, per poi proseguire costeggiando l’insenatura che ospitava le piccole barche dei pescatori.
Il mare antistante la spiaggia degradava molto dolcemente verso il centro del porto. Spesso, si fermavano incantati ad osservare il panorama.
La sabbia bianca ed il mare turchese riflettevano le piccole barche che i pescatori ormeggiavano al riparo dai venti. Era bello correre nella sabbia dove piccoli pesci e crostacei, per lo più muletti, vurgiuni, vavusi, e granchi facevano da padroni. Quel tratto li distraeva sempre prima di arrivare alla Guitgia...
“Tomasi’ amuni”, disse Pino. Era sempre la stessa storia. “Na facemu a ccu lassa”, era un modo per sfidarsi a chi arrivasse prima alla Guitgia, ma non c’era storia, Pino correva come se avesse le ali. “Ora arrivasti?!”, disse Pino, che già nuotava nell’acqua turchese, da lasciare senza fiato.
A poco a poco arrivavano gli altri ragazzi e, dunque, iniziava la festa. Un continuo sfidarsi a chi arrivava prima “o nivureddu”, “a cu facia chiù capuzzoni” e poi si faceva la torre umana. I più grandi si abbracciavano in cerchio, con l’acqua sotto la pancia e le braccia incrociate, e via via, i più piccoli gli salivano sulle spalle fino a formare una torre di almeno tre file di ragazzini, che ricadevano su sé stessi, miracolosamente senza mai farsi del male.
Pino, come sempre, aspettava trepidante che tutti i ragazzi si stanziassero in fila retta per sfidarsi alla corsa. Tommasino lo guardava sorridendo: conosceva perfettamente la natura competitiva o, meglio, “vinciusa” di Pino. Si trattava della sfida per eccellenza, nessuno lo riusciva a superare: era impossibile. Quando partiva era come se mettesse le ali, talmente era veloce che le gocce d’acqua rimaste sul corpo, giunto all’arrivo, erano ormai volatizzate, lasciandolo completamente asciutto.
U zu Michele e u zu Pitrinu, nel pomeriggio, dopo una battuta di pesca con la canna e una sfida a chi avesse preso più salpe, amavano sedersi sempre sopra una bitta, costruita sopra la spiaggia durante la prima guerra mondiale, che serviva per tenere ormeggiate le navi. Da lì, godevano di un’ottima visuale per osservare la scena. “Cu e’ stu caruso?”, disse u zu Michele. “Mi pari u fughiu do zu Giovanninu”, rispose u zu Pitrinu. “Si chiama Pinuzzu, è chiù veloce di nu SPARAGHIUNI.”
In ricordo dello zio Pinuzzu, conosciuto con il soprannome di “sparaghiuni”, un pesce che vive nei nostri mari, della famiglia dei saraghi, piccolo e velocissimo come lui.





Le notti delle sirene, 1972 – Giandamiano Lombardo

“Damia’, un siari chiu. Fermiti!”
Erano fuori le grottacce, non c’era un filo di vento, sarebbero dovuti rientrare in porto con i remi, per poi, dopo qualche ora, uscire di nuovo a tirare le reti.
Il mare sotto di loro si stendeva, all’infinito, la bonaccia che li avvolgeva come un lenzuolo su di una culla.
Damiano osservava le linee che si formavano ad ogni piccolo movimento della barca e sembravano inseguirli, ad ogni remata si avvicinavano a quelle grotte che sarebbero state il loro giaciglio per la notte. Spesso si fermavano a dormire protetti da quelle pareti di roccia, nell’attesa di riprendere all’alba il mare.
La barca era piccola, in sei riuscivano a stendersi a malapena sulla coperta. Le stelle li ricoprivano con la loro luce e, incantati da quella bellezza, non riuscivano a chiudere gli occhi neanche per un istante.
“Damia’, i sintisti?!”
Un brivido gli percorse tutta la schiena: un canto soave avvolgeva la grotta. Gli uomini, stregati da quei suoni, sembravano rapiti dal tempo.
Non si tapparono le orecchie e neanche si bendarono gli occhi come Ulisse, perché sapevano che ogni anno, tra febbraio e marzo, le sirene si fermavano nella nostra isola.
Ricordo che avrò avuto circa 8 anni, di domenica amavo stare con mio nonno nella piazza sotto il municipio dove lui chiacchierava, sotto l’unico albero, con i suoi vecchi amici pescatori.
Questa è la storia che ascoltai da loro mentre stringevo la mano di mio nonno Damiano.
Anni dopo seppi che il canto delle sirene che ascoltavano quei pescatori altro non erano che i suoni emessi dalle balene che ogni anno, da millenni, si ritrovano in questo periodo nelle acque antistanti Lampedusa.
Mi piace immaginare che i sei uomini presenti sulla barca quella notte abbiano creduto per sempre di aver ascoltato il canto delle sirene.








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